Perché è stato importante realizzare “Aprire Orizzonti”? «Non sono molte le occasioni per realizzare e partecipare a conferenze di qualità come “Aprire Orizzonti”. Investire per avere ospiti di alto livello permette di aiutare le persone che partecipano a riflettere sulla complessità di alcuni problemi, ribaltando un processo di semplificazione che in apparenza può rassicurare, ma alla lunga rischia invece di far incancrenire quei problemi che non sono osservati nelle loro molteplici sfaccettature». C’è dell’altro? «È fondamentale, in questo momento storico, riportare l’attenzione dello Stato e delle istituzioni verso il welfare, dato che proprio lo Stato e le istituzioni, per troppo tempo, hanno delegato ad altri la presa in carico dei problemi di povertà, emarginazione sociale, dipendenze patologiche e di tutte le differenti vulnerabilità dell’individuo. Quali sono le controindicazioni? «Correre il rischio di osservare solo la parte “sana” della società, per paura di intervenire su quella dolorosamente fragile, di non capire che così il processo si avvita su sé stesso e i bisogni si quintuplicano perché non curati adeguatamente, con lo stato sociale che soccombe a danno di tutti». Può farci un esempio concreto? «Il caso delle banlieue parigine o di altri quartieri disagiati come le Vele di Napoli, frutto di politiche urbanistiche che sanno solo mettere a margine i problemi a beneficio di chi non li vuole vedere, come quando si copre una ferita infetta. Il risultato è che poi per entrare in certi quartieri hai bisogno dell’esercito. Non solo, quando il problema si cronicizza avanza di generazione in generazione, ritorcendosi anche contro la fascia di popolazione che vive nel benessere. Se non si vogliono fare interventi seri per ragioni cristiane o altri più nobili motivi, almeno lo si faccia “per il proprio connaturato egoismo umano”, come diceva il senatore Luigi Manconi». Quali sono gli altri meriti della conferenza? «Aver messo al centro dell’attenzione chi oggi fa parte del motore dell’Italia, data l’incidenza del Terzo settore sul PIL, nonostante il continuo attacco da parte delle forze politiche per erodere questo fronte. Ci sono molti pregiudizi diffusi, come l’dea che le organizzazioni del settore siano spinte da fini di lucro. L’unico modo per confutarli è restituire nella concretezza delle situazioni quotidiane i momenti di cura che contraddistinguono l’attività di Casa Emmaus». È anche un’ottima occasione per “fare rete”? «Esattamente: una possibilità da cogliere per rafforzare la rete formale e informale che lega il pubblico e il privato e che si sta stringendo, vista la crisi, attorno a obiettivi comuni — in un processo di stima reciproca, di affetto, di relazione significativi, per far fronte a criticità che non si potrebbero affrontare singolarmente. È stato molto importante che fossero presenti le reti di Intercear, FeDerSerD, FICT e le comunità terapeutiche sarde, per cementare ulteriormente un rapporto di collaborazione reciproca». Quali prospettive future per la formazione a Casa Emmaus? «Attualmente abbiamo un progetto molto ambizioso: coinvolgere ATS Sardegna e le comunità terapeutiche in un percorso di formazione condiviso che aiuti a recuperare un linguaggio comune, a diminuire il pregiudizio, a eliminare la competizione tra il pubblico e il privato e a rafforzare quelle reti di umanità che fanno la differenza nella risoluzione dei casi delle persone di cui ci occupiamo». E per quel che riguarda il progetto Fon.Coop? «È un progetto di formazione con la Rete nazionale di Capodarco che mira a facilitare nelle organizzazioni del Terzo settore il cambio generazionale: futuri manager da coltivare per prendere in mano le organizzazioni nel domani, con un occhio all’oggi e uno al futuro».